Barbara Bolzan, L’età più bella, Butterfly Edizioni
Con “L’età più bella” Barbara Bolzan torna a rielaborare il tema autobiografico dell’epilessia con un romanzo dall’impianto strutturato che mette definitivamente ordine in un vissuto ormai lontano con cui si era già confrontata nel suo romanzo di esordio.
La protagonista cambia nome e la vicenda si arricchisce di co-protagonisti, coetanei di Caterina, che collocano con maggiore concretezza il racconto nella vita quotidiana di una liceale come tante.
Abbandonati i toni solipsistici, a tratti rabbiosi, della prima stesura, Caterina prende forma e si presenta come un’adolescente spigolosa, studentessa dalla memoria prodigiosa e dagli interessi eclettici che, ex abrupto, si ritrova catapultata nella realtà delle corsie ospedaliere alla ricerca di una diagnosi che si farà attendere per due anni.
Due anni durante i quali subirà numerosi ricoveri, verrà accusata più o meno esplicitamente di fingere sintomi fantasiosi per ottenere vantaggi ed attenzione, fino al sospetto della malattia psichiatrica.
Se gli amici acquistano peso nelle dinamiche del racconto i genitori restano in larga misura sullo sfondo, parte di quel mondo di adulti -medici e insegnanti- dal quale Caterina si protegge con un mutismo caparbio e di fronte al quale sente di doversi in qualche modo riscattare, fugando i dubbi e gli sguardi obliqui con una diagnosi che la riabiliti a pieno titolo.
Non attira troppe simpatie questa protagonista saccente, fin troppo colta per la sua età, che si esprime con citazioni dotte e metafore che spaziano dalla fisica alla filosofia. Eppure, al netto di qualche esasperazione, è proprio attraverso la sua erudizione che Caterina prende le distanze dal mondo: i libri sono la sua armatura, lo scudo con cui tiene a bada i fantasmi della malattia, un baluardo di certezze sul quale continua a mantenere il controllo mentre il suo corpo sfugge sempre più a qualsiasi logica.
Attraverso il filtro raffinato dei suoi pensieri Caterina si estrania da una realtà che non è in grado di metabolizzare per mancanze di risposte certe. Trova similitudini ai suoi stati d’animo nei classici della letteratura, si affida alla musica e all’arte figurativa e gradualmente fa il vuoto attorno a sé, allontana gli amici e si rassegna al ruolo che la malattia e la minore età le hanno cucito addosso, dissimulando il suo turbamento e rendendosi impermeabile alle delusioni e alle sconfitte.
La diagnosi, accolta trionfalmente quasi si trattasse di un’assoluzione piena in cassazione, fuga lo spettro della malattia mentale, le restituisce la fiducia in se stessa e la libertà di pensare al futuro.
Un futuro che intravediamo nelle ultime pagine e che ci mostra una Caterina ormai adulta e consapevole, maturata dalla sofferenza e dagli ostacoli, pronta a lasciarsi il passato alle spalle.
Il romanzo, così come è costruito, rifugge dai tecnicismi medici e avvicina con semplicità ad una malattia che, se nei secoli scorsi veniva assimilata al disturbo psichiatrico, anche dopo l’avvento della diagnostica moderna è stata spesso guardata con diffidenza.
Eppure l’epilessia, a vari livelli, è piuttosto diffusa.
Sareste sorpresi nello scoprire quante tra le persone che incrociate quotidianamente abbiano sofferto di episodi epilettici senza che questo ne faccia delle anomalie.
La normalità è qualcosa di sfuggente, che poco ha a che vedere con la malattia.
“Gli epilettici non sono grandi uomini. Non sono piccoli uomini. Non sono né buoni, né cattivi. Sono uomini. Punto e basta”.
Viv