L’omicidio è un affare serio

Francis Iles, L’omicidio è un affare serio, Polillo

Non fatevi trarre in inganno da titolo ed edizione, qui siamo di fronte a un vero e proprio romanzo che incidentalmente, per così dire, racconta la pianificazione di un delitto.
Per i cultori del genere negli anni è diventata una lettura quasi irrinunciabile, un punto di svolta nella narrazione gialla poiché introduce innovativamente il punto di vista dell’assassino come nodo centrale intorno al quale si sviluppa tutta la vicenda.

Sappiamo dunque sin dalle prime battute che il dottor Bickleigh cercherà di assassinare la moglie, conosciamo in anticipo piani e sotterfugi, osserviamo da vicino l’evoluzione delle sue strategie.
La sola cosa che non sappiamo è se riuscirà a farla franca.

Medico condotto in un tipico villaggio della campagna inglese il dottor Bickleigh è un uomo di trentasette anni sposato con un’aristocratica decaduta più anziana di lui che lo comanda a bacchetta e non perde occasione di metterlo in imbarazzo di fronte ai loro vicini e ospiti.
Il dottore, che in pubblico fa mostra di un’indole docile e gioviale, in privato soffre di un forte complesso di inferiorità per i suoi umili natali, la sua istruzione poco blasonata e persino per la sua bassa statura e, da ometto di poca sostanza qual è, compensa il senso di inadeguatezza concedendosi avventure galanti senza alcuna galanteria.
Inevitabilmente da una iniziale simpatia, si passa subito a trovarlo supponente e superficiale, per non parlare della biasimevole inclinazione a risolvere i problemi, in primis quello di una moglie scomoda, con l’omicidio.
Intorno a lui, dietro le tendine dei cottage dai giardinetti ben curati, le malelingue lavorano alacremente in un girotondo che non risparmia nessuno secondo la migliore tradizione delle piccole comunità rurali. Tutti gli abitanti di Wyvern’s Cross, ciascuno a suo modo, hanno un ruolo nella vicenda: ugualmente impiccioni e malevoli costituiscono un corona di personaggi, tutti negativi, di cui il dottor Bickleigh deve tener conto per evitare di cadere in contraddizione mentre semina false piste.
Il karma, che è beffardo, troverà modo di punirlo per l’unico omicidio che non ha commesso ma il piacere del lettore, come avrete intuito, sta nel viaggio più che nell’epilogo e certamente nel suo caso non si tratta di un “cattivo” con cui si riesca a simpatizzare.

Scritto negli anni Trenta questo romanzo piacerà agli amanti dell’umorismo britannico e delle ambientazioni rurali -per gli affezionati di Miss Marple diciamo che si tratta di una St. Mary Mead in acido- e chi ama i romanzi gialli apprezzerà l’impianto narrativo che propone uno dei primissimi esempi di inverted story, in chiave psicologica.
Francis Iles è pseudonimo di Anthony Berkeley che pubblicò romanzi con entrambe le identità e pare condividesse alcune affinità e stravaganze caratteriali con il personaggio del dottor Bickleigh.
Tra l’altro, c
uriosamente, sulla pagina della dedica de “L’omicidio è un affare serio” campeggia il nome della moglie Margaret.

Viv

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Piccole cose da nulla

Claire Keegan, Piccole cose da nulla, Einaudi

 

Irlanda 1985. Bill Furlong è quello che tutti definiremmo un brav’uomo. Ha quarant’anni, una piccola attività e una bella famiglia. Di lui in paese si può solo dir bene.
Figlio di una ragazza madre è cresciuto in un sereno benessere grazie all’ospitalità illuminata della vedova presso cui la madre prestava servizio che, pur mantenendo le distanze, si è sempre presa buona cura di loro e della sua educazione.
Lo accompagnamo durante i giri di consegna del carbone nei giorni che precedono il Natale e scopriamo i pensieri di un uomo empatico che sa quanto sia facile perdere tutto: vede le file per il sussidio, accoglie fin dove può le richieste di dilazioni dei pagamenti, si sfinisce di dubbi morali.
Ed è durante una di queste consegne al Convento del Buon Pastore che viene messo di fronte ad una realtà che fino ad allora aveva ignorato o tentato di ignorare.
Come reagire di fronte ad un abuso quando intervenire potrebbe danneggiarci in modo diretto? Quanto conta essere delle brave persone nel privato se di fronte a un’ingiustizia non prendiamo posizione, se scegliamo di non farci coinvolgere dai problemi altrui?
A fargli da contraltare, in primis, la moglie Eileen, donna dall’indole pragmatica, concentrata sull’accudimento della casa e delle cinque figlie, preoccupata di conservare i modesti agi di cui godono e di risparmiare a sufficienza per sostituire gli infissi perché la casa è piena di spifferi. Eileen non sempre comprende i turbamenti del marito e gli scrupoli della sua coscienza e, nell’ottica del racconto, incarna il sentire comune, i giudizio talvolta impietosi verso chi ha perso la retta via, la puerile convinzione che certe cose non possano capitare alle persone perbene.
D’altro canto a chi lo mette in guardia contro l’opportunità di sfidare i potenti, Bill obietta con una semplicità che rivela tutta la sua dirittura morale che anche i presunti intoccabili hanno “il potere che gli diamo”.
E proprio perché Bill si riconosce in un dramma che avrebbe potuto essere il suo se non avesse incontrato la bontà dei piccoli gesti da nulla con cui lo ha protetto la vedova Wilson, sa che l’omissione è il più subdolo dei peccati e decide, in una sorta di circolo virtuoso, di restituire il Bene ricevuto.

Mentre proseguivano e incontravano altre persone che conosceva e non conosceva, si ritrovò a domandarsi che senso aveva essere vivi se non ci si aiutava l’uno con l’altro. Era possibile tirare avanti per anni, decenni, una vita intera senza avere per una volta il coraggio di andare contro le cose com’erano e continuare a dirsi cristiani, a guardarsi allo specchio?

Scritto con toni intimi e toccanti questo breve racconto a sfondo natalizio tocca un tema scomodo senza la pretesa di esaurirlo e lascia ampio spazio all’approfondimento personale.
Per parte mia, la prima volta che sentii parlare dei Magdalene Asylum fu grazie al film Philomena del 2013. L’ultimo venne chiuso nel 1996, dopo duecento anni di abusi istituzionalizzati.

Viv

La linea del colore

Igiaba Scego, La linea del colore, Bompiani

Ecco, io vorrei un mondo dove noi africani avessimo la possibilità di spostarci. C’è chi vuole studiare, vedere il mondo, cambiare vita. E poi sì, insieme a questo vorrei che nessuno qui in Africa (…) dovesse essere costretto a partire perché non ha lavoro e prospettive. C’è anche da rivendicare il diritto a restare.

La linea del colore, come sottolinea l’autrice nella postfazione, è una storia afroitaliana, come lo è Igiaba Scego, che ha origini somale ma è nata e cresciuta a Roma. Questa premessa, a mio avviso, è importante per comprendere lo spirito con cui l’autrice affronta il tema dell’inclusione e del diritto alla mobilità dei popoli.

Il titolo, una citazione dello studioso afroamericano W. E. B. Du Bois, fa riferimento a quella linea che in base al colore della pelle attribuisce privilegi ai bianchi e nega diritti ai neri, ma, nello stesso tempo, il colore è quello dei pennelli di Lafanu Brown, protagonista del romanzo, che attraverso la sua arte si riappropria di un’identità che le era stata strappata con la violenza e compie un cammino di emancipazione dal Massachusetts alla città di Roma, che l’accoglierà dandole la possibilità di diventare pittrice.

Ambientato principalmente nell’Ottocento il romanzo procede in parallelo con la storia di Lafanu, giovane nativa americana afro discendente che, sotto la protezione di una benefattrice bianca, ottiene il privilegio di potersi accostare alla studio e alla pittura, e quella di Leila che dal secolo attuale cura una retrospettiva delle sue opere.

Il personaggio di Lafanu è letterario, seppure ispirato alla vita di due donne di discendenza africana realmente esistite, scultrice l’una e attivista l’altra, ma la forza espressiva con cui è descritto ci fa stupire di non ritrovare prove documentali delle sue opere digitandone i titoli in rete.

Ed è sempre attraverso l’arte -la Fontana dei Mori a Marino e il Monumento ai Quattro Mori di Livorno- che si crea un collegamento tra Lafanu, Leila e i loro antenati oppressi.

Il romanzo torna più volte, sia nel passato che nel presente, al tema dei passaporti forti contrapposti ai passaporti deboli rivendicando il diritto al movimento per tutti i popoli.

L’esperienza traumatica della cugina somala di Leila, che tentando di raggiungere l’Europa finisce in mano ai trafficanti del deserto, si contrappone con impatto ancora maggiore a ciò che accadeva solo cinquant’anni fa in Italia. Riporto qui di seguito la parte finale di un’intervista in cui l’autrice torna su questo tema fondamentale.  

In “Appunti per un’Orestiade africana”, si vede Pasolini che intrattiene un dialogo fantastico con una serie di studenti africani elegantissimi che si trovano a Roma. Ecco, quei ragazzi non è che ci fossero arrivati coi barconi in Italia, potevano viaggiare in aereo. E mi ricordo anche di come tanti membri della mia famiglia andassero avanti e indietro dalla Somalia quando ero bambina. Viaggiare, muoversi, andare e tornare era una scelta, com’è giusto che sia per tutti, non solo per chi ha la fortuna di ritrovarsi in mano il passaporto giusto. Le nostre politiche migratorie si arrogano il potere di trasformare questo diritto in un privilegio inaccessibile a interi popoli. Ma dobbiamo stare molto attenti, perché a furia di chiudere fuori gli altri, prima o poi qualcuno chiuderà fuori noi.

Viv

 

La ragazza giusta

Elizabeth Jane Howard, La ragazza giusta, Fazi

Gavin, parrucchiere in un salone della Londra degli anni Settanta, è un giovane trentunenne che vive ancora nella mansarda dei genitori, accudito da una madre ossessiva e fin troppo presente. Abile nel suo lavoro e nel gestire i capricci delle clienti, per lo più vecchie signore benestanti e annoiate, è invece privo esperienze di vita significative e patisce la goffaggine dei suoi approcci con le donne.

La vita non poteva essere tutta lì, ma se c’era dell’altro, lui sarebbe stato in grado di prenderselo?

Solo nei momenti che precedono il sonno quando finalmente si ritrova solo con se stesso si concede il lusso di immaginare incontri romantici con donne bellissime dai tratti preraffaelliti ma persino il suo migliore amico gay Harry non è persuaso del suo orientamento sessuale e si ostina ad invitarlo a feste alle quali preferirebbe non partecipare.

È durante una di queste feste che Gavin incontra due donne molto diverse che, ognuna a suo modo, lo porteranno ad aprirsi al mondo femminile. Joan la padrona di casa lo affascina e lo seduce con la schiettezza della sua conversazione e la consapevolezza dei suoi modi di donna adulta, Minerva, che è una ragazzina disadattata e millantatrice con una famiglia assente e gravi problemi di bulimia, lo coinvolge suo malgrado in una serie di situazioni cui non gli riesce di sottrarsi per mancanza di autorevolezza prima e per senso di responsabilità poi.

Tra questi due estremi c’è Jenny, l’apprendista con cui lavora ogni giorno e con cui non ha mai scambiato che qualche frase di circostanza prima di incrociarla in pausa pranzo a St James’s Park davanti al laghetto delle anatre e scoprire di potersi improvvisare mentore condividendo la sua passione per la musica, l’arte e la letteratura.

Questo romanzo soffre una certa mancanza di equilibrio a causa di una parte iniziale piuttosto corposa -quasi un quarto del libro- e inconcludente che si attarda a descrivere le chiacchiere frivole delle clienti del salone e i pensieri involuti del protagonista. Il racconto, al pari della vita di Gavin, svolta a partire dalla festa, motivo per cui non mi sento di escludere che l’effetto sia stato in parte ricercato. Allo stesso modo le talora estenuanti insicurezze del protagonista diventano in qualche modo specchio dell’imperfezione della vita che quasi sempre rifugge dai percorsi troppo nitidi.

Del resto chi non ha una Scala della Paura, con cui misura, magari in modo meno consapevole di Gavin, gli eventi in grado di paralizzare le proprie azioni?

Come sempre la Howard ha una scrittura brillante e uno sguardo acuto nel descrivere le interazioni tra i personaggi. Specie in ambito familiare riesce con poche frasi a regalare al lettore una visione a tutto tondo.

A casa sua non poteva andare perché sua madre gli avrebbe dato il tormento, e se anche si fosse rifugiato in camera sua sarebbe andata a portargli un vassoio carico di risentimento.

La stesura di questo romanzo inoltre coincide per l’autrice con una difficile separazione matrimoniale e forse a questo si deve il senso di smarrimento che emerge nella struttura complessiva. È ad Harry, l’amico intellettuale e sensibile che subisce a sua volta il tradimento e l’abbandono, che la Howard affida le riflessioni più emotive sulla coppia e sul disorientamento della separazione.

Non credi che il concetto di “persona giusta” sia relativo? Tu pensi che un giorno arriverà la persona perfetta, e allora sarà fatta! Ma non arriverà. E se arriverà, non sarà così per sempre. Nessuno resta com’è. Puoi sperare al massimo che decida di muoversi nella tua stessa direzione.

Avrete già intuito che non siamo all’altezza della saga che ha consacrato E.J. Howard ma è comunque un romanzo piacevole e ben scritto. 

Viv

 

Quaderno proibito

Alba De Céspedes, Quaderno proibito, Mondadori

Quanti romanzi avete letto perché suggeriti dal personaggio di un altro libro?
Nel caso di Alba De Céspedes sono debitrice in prima battuta a Franco Bordelli, malinconico commissario e assiduo lettore nato dalla penna di Marco Vichi. Da quel momento Alba ha cominciato a ripresentarsi finché non ho ceduto a “Quaderno proibito”.
Inizialmente proposto come racconto a puntate su una rivista femminile, solo nel ‘59 vide la luce come romanzo unitario e solo recentemente Mondadori ha ripubblicato i libri di questa autrice che per anni sono stati fuori catalogo. 

Valeria Cossati, protagonista del romanzo, è una donna della bassa borghesia negli anni Cinquanta.
Quarantatré anni, moglie di un impiegato di banca e madre di due figli che si affacciano sul mondo degli adulti, Valeria vive per consuetudine una vita di servizio, in ufficio, dove lavora per sostenere l’economia familiare, e dentro casa, dove figli e marito la danno ormai per scontata.

Il suo sguardo sul mondo cambia quando, preda di un impulso improvviso, acquista un quaderno dalla copertina nera. Questo quaderno -doppiamente proibito, perché di domenica le tabaccherie avevano il divieto di vendere articoli di cancelleria e perché un diario implica una segretezza che ai suoi occhi è già sinonimo di peccato- diviene simbolo di un’identità ritrovata e di quella libertà che non si è mai potuta concedere.

Ho fatto male a comperare questo quaderno, malissimo. Ma ormai è troppo tardi per rammaricarmene, il danno è fatto.  

Da quel momento le sue giornate sono scandite dal bisogno di ritagliarsi tempi e spazi privati per scrivere e dall’ansia di scovare dei nascondigli dove occultare la sua intimità in una casa dove nemmeno ci si pone il problema che la mamma -che è tale per i figli ma anche per il marito che da anni la chiama solo mammà– aspiri ad avere un angolino riservato a lei sola.
Valeria non ha una stanza tutta per sé per dirla con Virginia Wolf, nemmeno un cassetto da chiudere a chiave. Su di lei pesa la disapprovazione dell’educazione materna, la fastidiosa condiscendenza del marito, che non riesce ad andare al di là del suo ruolo casalingo ma più di ogni altra cosa grava il suo stesso giudizio poiché vive con un acuto senso di colpa ogni istante sottratto alla cura della casa e ai suoi doveri di madre e moglie. 

Scrivere tuttavia le diviene da subito indispensabile per comprendere il mondo e se stessa, si trasforma nel coltello con cui scava nella sua anima. Il fatto stesso di riportare sulla pagina gli avvenimenti giornalieri li rende meritevoli di analisi.

Non avrei mai creduto che tutto quanto m’accade nel corso della giornata valesse la pena di essere notato. (…) Imparare a comprendere le cose minime che accadono tutti i giorni, è forse imparare a comprendere davvero il significato più riposto della vita. Ma non so se è un bene, temo di no.

Il conflitto interiore di Valeria coinvolge tutte le sue relazioni e raggiunge particolare intensità nel suo rapporto con la figlia Mirella, portavoce delle istanze di una generazione che rifiuta il modello femminile proposto da madri sottomesse e incarna nei fatti quella ribellione che a Valeria è sempre stata preclusa. 

A pensarci bene mi sembra che questa sia la causa dell’inquietudine di Mirella: la possibilità di non ubbidire.

Mentre Valeria riflette con la penna in mano nel cuore della notte, la distanza con la figlia si assottiglia e gli sforzi silenziosi che le donne della sua generazione hanno compiuto nel tracciare la via di una possibile autonomia le risultano sempre più evidenti. 

Non capisce che sono stata proprio io a renderla libera, io con la mia vita dilaniata tra vecchie tradizioni rassicuranti e il richiamo di esigenze nuove. È toccato a me. Sono il ponte del quale lei ha approfittato, come di tutto approfittano i giovani: crudelmente, senza nemmeno avvedersi di prendere, senza darne atto. Adesso posso anche crollare.

Le riflessioni che apre questo romanzo sono tantissime e non si esauriscono in questi appunti frettolosi.
Per quel che mi riguarda Valeria tocca il cuore al lettore per la sua capacità di dare voce alla potenza devastante, talvolta distruttiva, degli affetti familiari. Lo fa quando si riferisce alla sua dedizione alla famiglia come a “un malvagio credito che le persone cui mi sacrifico dovranno scontare a poco a poco” o quando, dopo una notizia che cambierà anche il suo futuro costringendola a nuove rinunce, mormora scorata “Voi figli non avete mai pietà” condensando in una manciata di parole tanto di quello che della maternità si preferisce tacere o quando ancora ammette che “a un certo punto non si capisce più dov’è la bontà e dov’è la spietatezza, nella vita di una famiglia.”

So già a quali amiche consigliarlo.

Viv