Elizabeth Strout, Resta con me, Fazi editore

Nell’America degli anni Cinquanta, Tyler Caskey, reverendo in una piccola comunità protestante del Maine, si trova a dover gestire il rigore degli inverni, la perdita di una giovane moglie molto amata ma inadatta al ruolo istituzionale, due figlie piccole, una madre giudicante e uno stuolo di parrocchiani volubili, inclini al pettegolezzo e alla maldicenza.
Inizialmente accolto dai fedeli con grande favore ed entusiasmo per le sue spiccate doti oratorie, per la sua empatia e capacità di ascolto, quando il lutto offusca il suo approccio fiducioso alla vita, facendo vacillare certezze che poggiavano su una istintiva adesione al sentimento religioso, il pastore si trova a fare i conti con il progressivo disamore dei suoi parrocchiani.
La fatica e il dubbio -come padre spirituale e come padre di due bambine- pesa sulla quotidianità di Tyler. Il suo dolore allontana i fedeli che cominciano a lamentare la qualità dei sermoni, la distrazione e la mancanza di coinvolgimento nei loro problemi personali, fino ad attribuirgli una relazione con una donna sposata.
“La gente è nervosa. Hanno bisogno di prendersela con qualcuno, specialmente quando fiutano la debolezza sotto la superficie di un uomo che credono forte”.
Il fatto che la primogenita Katherine, che frequenta la scuola dell’infanzia, si sia chiusa in un ostinato mutismo e, fuori dalle mura domestiche abbia un comportamento ostile è un ulteriore elemento destabilizzante che gli procura aspre critiche soprattutto da quegli educatori che, senza cercare di comprenderne le ragioni, reagiscono alle provocazioni della bambina sentendosi attaccati a titolo personale.
Il peso dell’indifferenza e la superficialità nello sguardo di chi ci vive accanto (“Ma qualcuno si accorgeva mai di qualcosa?”) è uno degli elementi chiave nella crisi tra la famiglia Caskey e la comunità parrocchiale tuttavia la complessità di sentimenti è tale da non dividerli grossolanamente in “buoni” e “cattivi”.
Non c’è giudizio nello sguardo dell’autrice, ciascuno porta in cuore la fatica del suo quotidiano e il peso delle sue imperfezioni, luci e ombre convivono e la meschinità, le ipocrisie e le inquietudini personali lasciano spazio a piccoli e inaspettati gesti di autentica fraternità. Elizabeth Strout scontorna alla perfezione quei piccoli dettagli da cui, a catena, si origina il mutare del sentire collettivo ma lascia un margine di redenzione scegliendo di mettere in scena un finale di speranza.
Al netto di una bella scrittura che abbraccia con la consueta armonia una collettività stratificata di personaggi ben delineati, sono convinta che la lettura di questo libro -il secondo romanzo di Elizabeth Strout- sia stata penalizzata dall’averlo scelto, non intenzionalmente, in un momento in cui avrei avuto bisogno di una finestra sulla spensieratezza più che sulla cupezza delle fatiche del vivere.
Non tutti gli incontri nascono sotto la stella migliore.
Viv