The help

Avevo concluso da qualche giorno la lettura di “The help”, romanzo di Kathryn Stockett da cui è stato tratto l’omonimo film e mi sono affrettata a chiudere il cerchio con la trasposizione cinematografica.

Vecchia la diatriba “libro o film”. Con qualche rara e felice eccezione, preferisco quasi sempre leggere prima e vedere poi: mi piace consentire al mio immaginario di creare scenari senza condizionamenti. Va detto, per contro, che a volte anche una lettura troppo recente influenza la visione del film con aspettative di aderenza al testo che il cinema è spesso obbligato a disattendere, almeno in parte. In ogni caso il linguaggio filmico obbedisce a leggi diverse da quello letterario ed è bene non cercare nei film “tratti da” esattamente una lettura visiva del romanzo. Il film non è un bigino ma un’opera artistica a sé stante. Chiusa parentesi.

La vicenda si svolge a Jackson, Mississippi negli anni Sessanta. In primo piano le leggi segregazioniste e i movimenti di liberazione anti apartheid nella calura soffocante e quasi percepibile degli stati sudisti.
Un romanzo tutto al femminile, in cui gli uomini restano sullo sfondo e non acquistano mai spessore. La narrazione stessa è declinata attraverso l’alternanza delle voci delle tre protagoniste.
Aibileen, domestica afro americana ormai cinquantenne, una vita trascorsa ad allevare bambini bianchi amati come figli, spesso sostituendo madri assenti e anaffettive, che sopravvive con dignità al dolore per la perdita di un figlio proprio, morto in un incidente di lavoro tra l’indifferenza dei bianchi.
Minnie, la sua migliore amica, donna corpulenta ed energica, spesso nei guai con le famiglie bianche per cui lavora a causa di un carattere impulsivo e di una lingua intollerabilmente tagliente per una domestica di colore.
Infine Eugenia, detta Skeeter, neolaureata, bianca e anticonformista, cresciuta da una tata di colore molto rimpianta, lontana dalle aspettative delle sue coetanee già accasate, aspirante giornalista alla ricerca di una storia non convenzionale.
Eugenia coinvolge Aibileen e Minnie in un piano ambizioso: un libro-denuncia sulla condizione delle domestiche di colore nelle case dei bianchi. Progetto estremamente pericoloso, sia pure in forma anonima, in un mondo dove le ritorsioni e le violenze sui “negri” sono all’ordine del giorno, dove bianchi e neri si muovono secondo leggi prestabilite e le stesse signore bianche sono legittimate ad occupare il loro tempo unicamente tra il bridge e la beneficenza.
Infatti se le domestiche nere non possono utilizzare il bagno di casa e le stoviglie di famiglia, obbligate a sopportare in silenzio qualsiasi umiliazione, le signore bianche sono a loro volta paralizzate dal timore di incorrere in comportamenti che possano ostracizzarle dagli ambienti borghesi in cui si muovono.
Si delinea una società conformista, permeata di sottili ipocrisie e di razzismo perbenista, dove persino la libertà dei bianchi finisce laddove si paventa il rischio di perdere il proprio status esprimendo pubblicamente opinioni, sia pure minimamente, favorevoli ai diritti dei neri.
Alla pubblicazione del libro, le Misses bianche di Jackson si dibatteranno incerte tra il desiderio di vendetta e la necessità di ignorare un documento che, mettendo in piazza i panni sporchi delle loro famiglie, le costringe paradossalmente al silenzio pur di non ammettere che i panni di cui si scrive provengono direttamente dai cesti del loro bucato.

Pur con qualche piccola licenza, indispensabile a condensare un romanzo di oltre quattrocento pagine in poco più di due ore, il film è aderente allo spirito e alle intenzioni del libro.
La pellicola, candidata all’Oscar come miglior film, vanta anche le candidature di Viola Davis come miglior attrice, e di Jessica Chastain e Octavia Spencer -già vincitrice del Golden Globe per la sua interpretazione di Minnie- come migliori attrici non protagoniste.
Il regista Tate Taylor, amico della Stockett ed autore della sceneggiatura, si è infatti affidato ad un cast femminile di primo livello in cui spicca, tra l’altro, la figura di Bryce Dallas Howard nei panni della perfida Miss Hilly, ed Emma Stone in quelli di Skeeter; tra i personaggi minori Mary Steenburgen e Sissy Spacek a cui è affidata una delle battute più lapidarie del film.
Inutile dire che gran parte del piacere della visione si deve ad un’interpretazione corale riuscitissima e all’affiatamento di questo gruppo di grandi interpreti che dà consistenza ad una sceneggiatura ben calibrata.

Di piacevole intrattenimento sia libro che film, con un’alternanza ben riuscita tra commozione ed ironia, in cui gli aspetti più cruenti del razzismo vengono trattati con una certa qual leggerezza.

Rimando a questo articolo per il dibattito libro-film.

Viv