Fiori di cotone

Da qualche anno a gennaio sui profili social spuntano le parole guida per il nuovo anno. Non nego che la cosa in sé eserciti un certo fascino anche su di me ma ormai l’ho capito fin troppo bene: con me non funziona. Non sono brava quando si tratta di scegliere una sola parola che faccia da fil rouge per un anno intero, tutt’al più riesco ad azzardare la parola del mese o della settimana.
In ogni caso “leggerezza” se la gioca sempre in prima linea perché riuscire a prendere la vita con leggerezza è una faccenda che non maneggio ancora con disinvoltura.

E leggerezza oggi fa rima con i fiori di cotone che fluttuano su questo sfondo verde menta. La sentite anche voi?

Alla borsa ho aggiunto tre trousse a bauletto. Due in versione rettangolare e una un po’ più grandina che tende al quadrato.

Interno arancio per la borsa e verde per le trousse. Devo dire che mi piacciono entrambi gli accostamenti.

Borsa: larghezza cm 38 x altezza cm 29 x cm 15 fondo
Trousse bauletto: cm 17 x 14 – h 7,5
Trousse bauletto: cm 16 x 10 – h 7
Trousse bauletto: cm 16 x 9 – h 6

Viv

Chiamatemi Perpetua ma il mio nome è Mimì

Paolo Perlini, Chiamatemi Perpetua ma il mio nome è Mimì, Damster edizioni 

Esiste tutta una tipologia di romanzi gialli che mi è capitato più di una volta di consigliare anche a chi sostiene di non amare i gialli. Sono quelli in cui l’elemento di indagine è in fondo un pretesto per raccontare i personaggi, le loro interazioni e l’ambiente in cui si muovono.
È il caso di questo romanzo di Paolo Perlini che ruota sin dal titolo intorno alla figura di una perpetua suis generis allergica ad incensi e liturgie.
Da bambina Mimì era quello che si definisce un maschiaccio e anche ora che è una giovane donna maneggia con poca malizia il suo fascino soffocandolo in una salopette, modi sbrigativi e un linguaggio colorito.
Madre single con una bambina di sei anni dall’intelligenza pronta e dall’eloquio brillante, Mimì si barcamena in una situazione economica precaria che tiene in bolla grazie all’aiuto della madre Amelia che si diletta di erbologia e pozioni come la fattucchiera disneyana.

Durante un turno di pulizie nella chiesa parrocchiale Mimì scopre nel confessionale il cadavere di Alberto Casati.
Nel quartiere veronese non è un segreto per nessuno che Casati sia stato un uomo di moralità tutt’altro che specchiata. Chiacchierato frequentatore di prostitute era solito lavarsi la coscienza in confessionale dopo ogni rapporto promiscuo così come altri si fanno una doccia. La curiosità di Mimì tuttavia viene sollecitato da una serie di messaggi anonimi e dal gran numero di donne in gramaglie, chiaramente tutte dedite al mestiere più vecchio del mondo, che affollano la chiesa per la veglia funebre.
La sua indagine inizia così, in sordina, una domanda qui, una risposta là, sollecitata con garbo dall’ispettore Franchini -la quota fascino maschile- il quale ritiene, non senza qualche ragione, che in qualità di perpetua Mimì possa trovarsi a raccogliere suo malgrado informazioni utili alla soluzione del delitto.
Piano piano si affacciano sospetti e segreti sottaciuti e si fa strada la realtà torbida di una comunità ricattabile in modo quasi circolare e di minorenni irretite dal denaro facile e dal potere illusorio del sesso.

Il finale ha un sapore agrodolce, e poco importa che chi deve pagare alla fine paghi perché la Mimì dal cuore puro che, malgrado la superficie ruvida, si fida del prossimo e non accetta scorciatoie e mezze verità, chiude il sipario portandosi addosso il peso di una speranza infranta e la sensazione di un piccolo tradimento, forse necessario ma comunque non del tutto indolore.

Con il garbo e la leggerezza consueta questo romanzo ci restituisce le atmosfere della provincia veneta e ci regala un piacevole intrattenimento.
E così come non si preoccupa di rientrare in una categoria prestabilita allo stesso modo non si fa carico di gratificare le aspettative di chi legge mettendo in ordine tutti i tasselli della vita privata di Mimì, alla quale tuttavia mi sento di augurare un finale romantico almeno dietro le quinte. 

Viv

Previdente, virtuosa e indispensabile

In questo periodo ho sperimentato un po’ con le misure di queste trousse a bauletto.
Senza ostinarsi a seguire maniacalmente regole autoimposte che, trattando per lo più di pezzi unici, hanno davvero poco senso, sono approdata essenzialmente a tre misure: maxi, media e piccola, ovvero la previdente la virtuosa e l’indispensabile.

– La Previdente
La versione maxi è quella del viaggiatore “previdente”. Una toiletry bag super capiente, per non dover tirare a sorte tra la crema e lo struccante o se preferite per riunire nell’abbraccio di un’unica cerniera la piccola farmacia che solitamente finisce in un sacchetto all’ultimo minuto.
Cm 21,5 x cm 14,5  x cm 8

– La Virtuosa
È la trousse media, del resto lo dicevano anche i latini che in medio stat virtus. Sa cosa ci si aspetta da lei e cerca di svolgere al meglio il suo compito, senza deludere e senza strafare.
Cm 18 x cm 13 x cm 8

– L’Indispensabile
È la più piccola, la trousse per l’indispensabile, per esempio i trucchi senza i quali ci sentiremmo perse o quei piccoli accessori da cui non possiamo proprio separarci pena il disagio. Non è piccola in senso assoluto ma del resto di una trousse davvero minuscola non sapremmo che farcene, giusto?
Cm 17 x cm 10 x altezza cm 6

Viv

Il peso delle parole

Pascal Mercier, Il peso delle parole, Fazi 

Inutile negare che le pagine di questo corposo romanzo di Pascal Mercier -autore già presente sul blog con “Treno di notte per Lisbona”- abbiano, al di là del titolo, un peso specifico che non si accontenta di una lettura veloce né superficiale.
Non lo sottolineo per scoraggiare eventuali lettori ma perché i temi e la struttura sono quelli del romanzo filosofico e filologico di ampio respiro in cui le riflessioni sulla vita e sul significato delle parole prevalgono sull’intreccio in senso stretto.

“Tutto ciò che per lui avesse mai contato erano le parole. Ogni cosa esisteva realmente solo quando veniva nominata e formulata in parola. Non l’aveva deliberatamente scelto, gli era capitato ed era stato così fin dall’inizio. (…) Faceva esperienza delle cose solo quando le afferrava per il tramite della parola, diceva talvolta, e allora la gente lo guardava incredula. (…) Solo con Livia non aveva mai avuto bisogno di parole.”

Simon Leyland è un traduttore. Sin da bambino ha subito la fascinazione delle parole, al punto da vagheggiare di imparare tutte le lingue del Mediterraneo. Trasferitosi da Londra a Trieste insieme alla famiglia per consentire alla moglie Livia di mettersi alla guida della casa editrice fondata dal nonno, alla sua morte le subentra fino a che una diagnosi medica errata, lo costringe a ridiscutere il suo futuro. Da qui il ritorno a Londra e la ricerca di un nuovo equilibrio.
È a questo punto della sua vita che il lettore incrocia il protagonista. Le
lunghe lettere che scrive alla moglie dopo la sua morte testimoniano la loro profonda connessione e il persistente sentimento di mancanza ed è attraverso questa comunicazione a senso unico che Simon riesce a far ordine nel passato e nel presente.

“Lui e Livia: sentivano nelle parole cose che nessun altro sentiva, a volte sembrava loro di vivere in uno spazio sonoro-semantico del tutto peculiare, uno spazio privatissimo precluso agli altri.”

Attraverso il racconto intimo a Livia, entriamo in punta di piedi nella vita di Simon e ripercorriamo gli spartiacque che ne hanno deviato il corso.
Il cammino in solitaria senza la moglie, la vendita della casa editrice dopo la diagnosi, l’eredità che lo riporta a Londra sono tutte sliding doors attraverso le quali Simon prende coscienza di percorsi che non immaginava potessero far parte del suo destino ma che, suo malgrado, gli offrono nuovi scenari e nuove insospettate possibilità.
Il racconto è costellato di incontri, di momenti in cui per un attimo il velo dei suoi rapporti privati con l’uno o con l’altro personaggio si solleva per consentirci di ricostruire la fitta ragnatela di relazioni significative in cui, guarda caso, libri e parole sono spesso protagonisti.
I personaggi portano vissuti impegnativi, come l’esperienza del carcere di Andrej Kuzmin, l’illegalità etica dell’ex farmacista Kenneth Burke e temi non banali come quello della gratitudine di cui scrive Francesca Marchese. E ancora la capacità di adattarsi agli imprevisti, il cambiamento, la tirannia delle aspettative altrui, la percezione del tempo, l’eutanasia. Tutti confluiscono con naturalezza nell’intreccio esattamente come avviene nella vita reale in famiglia o tra amici e conoscenti che amino conversazioni di spessore. 

La natura di Simon è quella di un uomo che ha sempre vissuto pesando le parole, la traduzione di un’opera non è per lui la mera trasposizione in un’altra lingua che ne permetta la fruizione ma un processo delicato di comunanza con l’autore, un’intimità da maneggiare con rispettosa discrezione.

“Il traduttore si avvicina all’autore come nessun altro. Tradurre crea una vicinanza che è più grande di qualsiasi altra, più grande anche di qualsiasi vicinanza fisica, persino di quella fra amanti. Perché dopo un po’ il traduttore conosce il lato più intimo che si possa scoprire in un autore: l’alfabeto segreto della sua fantasia. Può capitare che questo alfabeto risulti assolutamente estraneo al traduttore. E allora vive questa estraneità come più gelida e scoraggiante di qualsiasi estraneità in un rapporto. Tradurre, ebbene tradurre è un’inaudita invasione nel mondo interiore dell’altro.”

La riflessione sul peso delle parole trova inevitabilmente massima sublimazione nella poesia ma si estende significativamente all’uso di una lingua rispetto ad un’altra, alle sfumature che le parole e i sentimenti stessi acquisiscono passando da una lingua all’altra. Un gioco di rimandi evocativo che trova corrispondenze continue nel lettore.
Chi non ha sperimentato quanto il suono di alcune parole, soprattutto nella propria lingua madre, siano indissolubilmente legate ad un’emozione? O quanto la padronanza profonda di un’altra lingua passi anche attraverso un cambio di prospettiva? 

“Aveva imparato molto presto che le parole non erano estranee ai sentimenti, e nemmeno ne erano una semplice espressione nel senso più banale, ma che invece i sentimenti erano insiti nelle parole e si rivelavano nel loro suono.”

“Le lingue sono espressioni delle melodie della vita; quando si cambia lingua si è nel mondo e nella vita in modo diverso. La tonalità emotiva, si potrebbe dire, è diversa da una lingua all’altra. Ragione per cui le relazioni umane hanno un diverso temperamento a seconda della lingua”.

Non è un romanzo privo di difetti, le digressioni sono tante e talvolta appesantiscono la narrazione ma è soprattutto un romanzo che non può essere letto in velocità.
Se intorno all’uso delle parole si gioca larga parte del contenuto, il cuore del romanzo si annida nel nostro potere di scegliere anche quando il destino sembra offrirci strade obbligate, tesaurizzando anche quei cambiamenti che lì per lì ci sembrano scherzi brutali. 

Ah, se segnassi ancora le frasi su un’ipotetica Smemoranda quella che segue sarebbe la prescelta da questo libro.

“Non esiste estraneità più grande di quella dell’intimità infranta.”

Viv

Fascia per le estati delle winter

Per chi si diletta di armocromia, il titolo è un gioco di parole che allude all’uso prettamente estivo di queste fasce e al loro colore freddo e brillante che è perfetto per i gruppi “winter”.

Lo so, non siamo nemmeno usciti ufficialmente dall’inverno ma, portate pazienza, qui si guarda avanti con un accessorio che io identifico soprattutto con i mesi estivi.
Durante l’estate, infatti, specie nelle giornate ventose sulla spiaggia le fasce diventano accessori utilissimi anche per chi solitamente non indossa fasce e cerchietti.
Queste in particolare sono pezzi unici in cotone batik tinto a mano.

Viv