Pascal Mercier, Il peso delle parole, Fazi
Inutile negare che le pagine di questo corposo romanzo di Pascal Mercier -autore già presente sul blog con “Treno di notte per Lisbona”- abbiano, al di là del titolo, un peso specifico che non si accontenta di una lettura veloce né superficiale.
Non lo sottolineo per scoraggiare eventuali lettori ma perché i temi e la struttura sono quelli del romanzo filosofico e filologico di ampio respiro in cui le riflessioni sulla vita e sul significato delle parole prevalgono sull’intreccio in senso stretto.
“Tutto ciò che per lui avesse mai contato erano le parole. Ogni cosa esisteva realmente solo quando veniva nominata e formulata in parola. Non l’aveva deliberatamente scelto, gli era capitato ed era stato così fin dall’inizio. (…) Faceva esperienza delle cose solo quando le afferrava per il tramite della parola, diceva talvolta, e allora la gente lo guardava incredula. (…) Solo con Livia non aveva mai avuto bisogno di parole.”
Simon Leyland è un traduttore. Sin da bambino ha subito la fascinazione delle parole, al punto da vagheggiare di imparare tutte le lingue del Mediterraneo. Trasferitosi da Londra a Trieste insieme alla famiglia per consentire alla moglie Livia di mettersi alla guida della casa editrice fondata dal nonno, alla sua morte le subentra fino a che una diagnosi medica errata, lo costringe a ridiscutere il suo futuro. Da qui il ritorno a Londra e la ricerca di un nuovo equilibrio.
È a questo punto della sua vita che il lettore incrocia il protagonista. Le lunghe lettere che scrive alla moglie dopo la sua morte testimoniano la loro profonda connessione e il persistente sentimento di mancanza ed è attraverso questa comunicazione a senso unico che Simon riesce a far ordine nel passato e nel presente.
“Lui e Livia: sentivano nelle parole cose che nessun altro sentiva, a volte sembrava loro di vivere in uno spazio sonoro-semantico del tutto peculiare, uno spazio privatissimo precluso agli altri.”
Attraverso il racconto intimo a Livia, entriamo in punta di piedi nella vita di Simon e ripercorriamo gli spartiacque che ne hanno deviato il corso.
Il cammino in solitaria senza la moglie, la vendita della casa editrice dopo la diagnosi, l’eredità che lo riporta a Londra sono tutte sliding doors attraverso le quali Simon prende coscienza di percorsi che non immaginava potessero far parte del suo destino ma che, suo malgrado, gli offrono nuovi scenari e nuove insospettate possibilità.
Il racconto è costellato di incontri, di momenti in cui per un attimo il velo dei suoi rapporti privati con l’uno o con l’altro personaggio si solleva per consentirci di ricostruire la fitta ragnatela di relazioni significative in cui, guarda caso, libri e parole sono spesso protagonisti.
I personaggi portano vissuti impegnativi, come l’esperienza del carcere di Andrej Kuzmin, l’illegalità etica dell’ex farmacista Kenneth Burke e temi non banali come quello della gratitudine di cui scrive Francesca Marchese. E ancora la capacità di adattarsi agli imprevisti, il cambiamento, la tirannia delle aspettative altrui, la percezione del tempo, l’eutanasia. Tutti confluiscono con naturalezza nell’intreccio esattamente come avviene nella vita reale in famiglia o tra amici e conoscenti che amino conversazioni di spessore.
La natura di Simon è quella di un uomo che ha sempre vissuto pesando le parole, la traduzione di un’opera non è per lui la mera trasposizione in un’altra lingua che ne permetta la fruizione ma un processo delicato di comunanza con l’autore, un’intimità da maneggiare con rispettosa discrezione.
“Il traduttore si avvicina all’autore come nessun altro. Tradurre crea una vicinanza che è più grande di qualsiasi altra, più grande anche di qualsiasi vicinanza fisica, persino di quella fra amanti. Perché dopo un po’ il traduttore conosce il lato più intimo che si possa scoprire in un autore: l’alfabeto segreto della sua fantasia. Può capitare che questo alfabeto risulti assolutamente estraneo al traduttore. E allora vive questa estraneità come più gelida e scoraggiante di qualsiasi estraneità in un rapporto. Tradurre, ebbene tradurre è un’inaudita invasione nel mondo interiore dell’altro.”
La riflessione sul peso delle parole trova inevitabilmente massima sublimazione nella poesia ma si estende significativamente all’uso di una lingua rispetto ad un’altra, alle sfumature che le parole e i sentimenti stessi acquisiscono passando da una lingua all’altra. Un gioco di rimandi evocativo che trova corrispondenze continue nel lettore.
Chi non ha sperimentato quanto il suono di alcune parole, soprattutto nella propria lingua madre, siano indissolubilmente legate ad un’emozione? O quanto la padronanza profonda di un’altra lingua passi anche attraverso un cambio di prospettiva?
“Aveva imparato molto presto che le parole non erano estranee ai sentimenti, e nemmeno ne erano una semplice espressione nel senso più banale, ma che invece i sentimenti erano insiti nelle parole e si rivelavano nel loro suono.”
“Le lingue sono espressioni delle melodie della vita; quando si cambia lingua si è nel mondo e nella vita in modo diverso. La tonalità emotiva, si potrebbe dire, è diversa da una lingua all’altra. Ragione per cui le relazioni umane hanno un diverso temperamento a seconda della lingua”.
Non è un romanzo privo di difetti, le digressioni sono tante e talvolta appesantiscono la narrazione ma è soprattutto un romanzo che non può essere letto in velocità.
Se intorno all’uso delle parole si gioca larga parte del contenuto, il cuore del romanzo si annida nel nostro potere di scegliere anche quando il destino sembra offrirci strade obbligate, tesaurizzando anche quei cambiamenti che lì per lì ci sembrano scherzi brutali.
Ah, se segnassi ancora le frasi su un’ipotetica Smemoranda quella che segue sarebbe la prescelta da questo libro.
“Non esiste estraneità più grande di quella dell’intimità infranta.”
Viv